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Sii gentile con te stessa

Mi chiamo Elena, diverso tempo fa non avrei voluto raccontare la mia storia, non credevo neanche valesse la pena raccontarla, sentivo di stare bene, anzi non ero mai stata meglio.

Oggi mi sento di raccontarla, non mi trovo più in quel buio pesto che è la malattia ma non nego che a distanza di anni fa ancora male e,  nel ripercorrere il mio vissuto gli occhi mi si gonfiano ancora di lacrime e le ferite si riaprono e bruciano.

Ci tengo a raccontare oggi perché nel mondo in cui ci troviamo sento che sia necessario normalizzare e scandagliare il tabù, la vergogna e il senso di fallimento che si può provare nel parlare del proprio vissuto in termini di DCA.

Ho cominciato a soffrire di DCA  a 17 anni, sono sempre stata una ragazza timida, a tratti insicura e vittima dell’ arroganza altrui.

Non ero una di quelle bambine che imponeva il proprio pensiero, ho dovuto imparare a mie spese molto presto che tenere la bocca chiusa fosse la strada migliore per vivere in pace.

Credo di aver preso troppo alla lettera il concetto e di aver deciso ad un certo punto della mia vita, all’ apice di un senso di vuoto e di mancanza di affetto, di chiudermi la bocca in tutti i sensi e negare a me stessa l’ ascolto di un dolore che non riuscivo più a sopportare, concentrando la mia attenzione su qualcosa di semplice e concreto: dimagrire.

Per diversi mesi così ho iniziato la mia scalata verso il non sentirsi fino a raggiungere una specie di idillio sensoriale, l’ essere imperturbabili di fronte alla consapevolezza di essere diventata così forte da non aver bisogno di mangiare. Non potevo sentirmi meglio in quel periodo, nulla mi toccava, l’ arroganza che mi mancava faceva capolino e le insicurezze diventavano un ricordo.

A quanto sembrava però le persone intorno a me non la pensavano così, mi rimproveravano  di non essere più la stessa, di essere cambiata e questo confermava a me stessa che era giusto così e che finalmente anche io adesso avevo la mia sicurezza.

Il dolore degli altri scalfiva a piccoli passi la mia corazza, dentro di me avevo un conflitto tra il voler uscire da una me che in qualche modo sapevo non fosse autentica e la paura di non poter essere più intoccabile.

 Il dolore incessante della mia famiglia mi ha spinto a voler fare un colloquio con uno psicologo e da lì in poi con molta fatica e momenti di up e down ho preso consapevolezza di quello in cui ero finita.

 Mi sentivo sola, nessuno poteva capire quello che avevo dentro e i commenti o consigli altrui erano sforzi vani di avvicinarsi anche minimamente a quello che stavo passando.

Questa malattia ti da tutto è ti toglie tutto quando meno te l ‘aspetti, più ci stai dentro e più aumentano gli interessi che pagherai dopo; se dovessi trovare un nome per definirla è uno strozzino che promette di poterti aiutare facilmente ma che poi picchiarà duro quando non sarai più all’ altezza delle sue richieste.

Rendersi conto di tutto questo è un percorso per ognuno diverso, da cui si esce imparando ad accettare parti di sé e ad avere pazienza e gentilezza nei propri confronti.

Io credo nella rinascita, una rinascita reale in cui non si cancella il passato, lo si porta addosso, si è “rinati” da esso non da qualcos’altro. Oggi infatti sono guarita dalle dinamiche della malattia ma sono anche consapevole di non poter essere come una persona che non ha mai sofferto di DCA ho una responsabilità nei confronti di me stessa, dei pensieri che rivolgo a me stessa, delle conclusioni che traggo dalle mie giornate che purtroppo o per fortuna non tutti portano con sé.

 A chi sofferto come me dico, puoi farcela se ti appelli a quella parte di te che è stanca di starci dentro e fai un salto bendato verso ciò che la vita può offrirti al di fuori di quello stato.

 Non sarai solo, se gli darai spazio avrai la tua fiducia, il tuo perdono, la  tenerezza nel confronti di te stesso e l’ amore che puoi imparare a concederti.

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