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Adesso che sto a Villa Miralago da ormai due anni e mezzo mi sento distaccata dalla realtà ed ho
paura del mondo esterno. So che prima o poi dovrò tornare, e ne sono spaventata, perché non
sono stata capace di coltivare i rapporti con gli amici e con la famiglia, anche se sento il bisogno di
provarci. Ho tentato in tutti i modi di studiare, ma non riesco. A vent’anni sento di non aver concluso
niente, non provo nessuna spinta a fare qualcosa, non ho desideri né obiettivi. Sara è ancora piccola,
non è cresciuta: si sente persa e non sa cosa fare.
Non so dire quando è iniziata la malattia, so solo che ero molto piccola, tanto che non ricordo una
Sara senza la malattia. Ho avuto una pubertà precoce, per cui a otto anni mi sentivo diversa dalle
mie compagne di scuola: non tolleravo di essere una bambina nel corpo di una donna.
Appartengo ad una famiglia allargata, ho dei fratelli e una sorella molto più grandi di me, nati da
precedenti unioni dei miei genitori, ed io desideravo essere pari a loro. Mi sono sentita poco accettata,
soprattutto da uno dei fratelli, perché io ero quella che univa tutta la famiglia e questo mi
poneva un po’ al centro dell’attenzione. Mi sentivo eccessivamente giudicata, anche se in realtà ero
io la prima ad essere molto severa con me stessa.
Sono stata cresciuta da una tata perché i miei genitori lavoravano; ho frequentato la scuola materna
dove abitava lei, ma sono stata iscritta alle elementari del mio comune. Questa cosa mi ha un po’
destabilizzata, soprattutto perché è cambiata anche baby sitter.
Per anni ho nascosto ai miei genitori la mia malattia. Con mia madre ho innalzato un muro, non so
nemmeno bene io perché. Ero invece molto legata a mio padre, però lui era molto protettivo, sosteneva
che ero libera di fare ciò che desideravo, ma si arrabbiava tantissimo se ciò che facevo era
diverso dalle sue aspettative. Questo mi faceva sentire in colpa e inadeguata ai suoi occhi.
L’autolesionismo è iniziato all’epoca delle medie; mi tagliavo perché mi sentivo a disagio, non riuscivo
ad essere autentica né con gli amici né con la famiglia, mi nascondevo dietro una maschera. Col
tempo il clima in famiglia si è fatto teso, mio padre si arrabbiava, mamma stava male, non aveva amici,
hobby né amor proprio. Li vedevo sempre in conflitto e mi sembrava che tra loro non ci fosse più amore.
Credevo che non ce ne fosse nemmeno per me, forse per le barriere che io stessa avevo innalzato.
Dopo un litigio io e mio padre non ci siamo più parlati e allora mi sono sentita autorizzata a fare
tutto ciò che volevo. Da quel momento è stata tutta una discesa, mangiavo e vomitavo continuamente,
senza pensare che avrei potuto morire. Odiavo il mio corpo e volevo distruggerlo.
Ho trovato aiuto nella scrittura. Sin da piccola ho tenuto un diario e ancora oggi scrivo ogni giorno,
è lo strumento che mi consente di esprimere ciò che provo. Ho un po’ di problemi di memoria, e
scrivendo riesco a fissare meglio i ricordi.
La malattia non l’ho mai vista come una nemica da combattere, ma una cosa utile, da accogliere.
Devo trovare la forza di lasciarla andare e cominciare a camminare con le mie gambe.

Foto di Marco Rilli

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