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Diario di un dolore di  Clive S. Lewis

I momenti in cui non penso a lei sono forse i peggiori. Perché allora, anche se ne ho dimenticato la ragione, tutto è velato da una vaga sensazione di errore, di difetto. […] Così ora. Vedo le bacche del sorbo che stanno volgendo al rosso e per un attimo non so perché proprio queste bacche debbano mettermi addosso tanta tristezza. Sento suonare una pendola e il suono non ha più quel qualcosa di sempre. Che cos’ha il mondo? Perché è diventato così piatto, così meschino e consunto? Poi mi ricordo. (p. 43)

Quando sentiamo parlare di C.S. Lewis, lo associamo immediatamente al mondo del fantasy in generale, e a Narnia in particolare. In realtà Lewis è stato uno studioso dallo spirito pungente e un autore poliedrico; in particolare, dopo la sua conversione al Cristianesimo, si è dedicato a profonde riflessioni sulla fede e sul senso dell’esistenza, tradotte anche in alcuni interventi.

 In Diario di un dolore, quest’indagine sul senso pare incastrarsi, inciampare, di fronte al lutto profondissimo per la morte della moglie. Lewis si ribella però alla paralisi che lo coglie e non cessa di interrogarsi: lo fa pungendo, lacerando i luoghi comuni, ribellandosi alle aspettative altrui su come dovrebbe sentirsi un uomo da poco vedovo, o un cristiano di fronte alla perdita di una persona amata. La religione infatti, data per certa durante la vita, si rivela tutto a un tratto insufficiente, inadeguata a fornire risposte o consolazione: perché la concretezza, la materialità del dolore prevalgono dapprima sulla fiducia nella trascendenza.

“Il suo viaggio continua” mi dite. Ma il mio cuore e il mio corpo gridano: ritorna, ritorna. Sii un cerchio che tocca il mio cerchio sul piano della Natura. Ma so che è impossibile. So che quello che voglio è proprio quello che non potrò mai ottenere. La vita di un tempo, gli scherzi, bere insieme, discutere, fare l’amore, le piccole e struggenti banalità. Da qualsiasi punto di vista, dire: “H. è morta“ è lo stesso che dire: “tutte queste cose sono finite“. Sono parte del passato. E il passato è il passato è questo è ciò che si intende per tempo, e il tempo è uno dei tanti nomi della morte. (p. 31)

Passare attraverso la propria sofferenza significa anche interpellare il divino, rimettere in discussione ogni cosa, compresa la Sua presunta bontà, che pare confutata dagli eventi. La fede di manifesta non come assenza del dubbio, ma come il suo tormentato attraversamento. Eppure Lewis si rende conto che il suo interrogarsi non è forse che un modo per anestetizzare il mancamento di fronte al vuoto che si è appena venuto a creare:
Perché do spazio nella mia mente a queste disgustose idiozie? Spero forse che, mascherati da riflessione, i sentimenti si facciano sentire meno? Tutte queste note non sono forse gli assurdi contorcimenti di non vuole accettare che nella sofferenza non si può fare altro che soffrire? Di chi è ancora convinto che esista un sistema (se solo riuscisse a trovarlo!) per cambiare il soffrire in non soffrire. Stringi i braccioli della poltrona del dentista o tieni le mani in grembo, la cosa non cambia. Il trapano continua a trapanare. (p. 39-40)

Allo stesso modo, con una lucidità dolente, l’autore sa che quello che rimane di H., nel suo ricordo, rischia di ridursi nel giro di poco a un fantoccio costruito ad arte a scopo consolatorio, e l’esistenza di chi rimane di essere così immolata sull’altare dell’autocompatimento.
La tomba e l’immagine sono entrambe agganci con ciò che è irrecuperabile e simboli di ciò che è inimmaginabile. Ma l’immagine ha in più lo svantaggio di essere pronta a fare tutto quello che vogliamo. Sorriderà o si rabbuierà, sarà tenera, gaia, sboccata o polemica, secondo ciò che chiede il nostro umore. È una marionetta di cui reggiamo i fili. (p. 27)

Il rimando alla forma diaristica, nel titolo tradotto (nell’originale sarebbe “A Grief Observed”) è legato alla natura dello scritto, che procede per frammenti che denunciano uno scorrere del tempo e una lenta rielaborazione del sentire, e del lutto. Quella di Lewis è una dissezione chirurgica, l’osservazione di uno scienziato pronto a cogliere ogni contraddizione, comprese le sue stesse ipocrisie: la sua fede, il suo amore, il suo spirito di sacrificio non bastano come ideali astratti, devono resistere alla prova della vita per non rivelarsi semplici “castelli di carta”. E la cosa che più lo sorprende, nella sua autoanalisi schietta, priva di pietismi, è che H. ritorna a lui proprio nel momento in cui il dolore si attenua, non occupa più tutto lo spazio disponibile:
L’abbandono al dolore, invece di legarci ai morti, ce ne distacca. Questo mi diventa sempre più chiaro. È proprio nei momenti in cui la pena è meno forte (al mattino, per esempio, quando entro nell’acqua del bagno) che H. invade di colpo la mia mente nella sua piena realtà, nella sua alterità. Non, come nei momenti peggiori, scorciata, resa patetica, resa solenne dalla mia cupezza, ma così come essa è, come è davvero. Questo fa bene, e tonifica. (p. 63-64)

Diario di un dolore è allora la cronaca di uno sprofondare, ma anche dei lenti passi verso una riconciliazione: con Dio, con il ricordo di H., con la propria sete di vita, che persiste oltre il dolore e che diventa omaggio a chi non c’è più, in virtù di una nuova, più alta forma di amore e di consapevolezza.
Guarda fino in fondo, cara. Non mi nasconderei nemmeno se potessi. Noi non ci siamo idealizzati l’un l’altro. Abbiamo cercato di non avere segreti fra noi. Tu già conoscevi gran parte delle mie zone guaste. Se ora vedi di peggio, posso sopportarlo. E anche tu. Rimprovera, spiega, canzona, perdona. Perché questo è uno dei miracoli dell’amore: che esso dà – a entrambi, ma forse soprattutto alla donna – la capacità di vedere al di là dei suoi incantamenti, ma senza che l’incanto scompaia. (p. 80-81)

 Carolina Pernigo


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