“La mia vacca svizzera”, così mi ha chiamata un giorno il ragazzo a cui mi ero aggrappata, lacerata
dal dolore per la perdita di mia nonna, nel 2010. Da quel giorno anche il suo fratellino mi ha chiamata
in questo modo. In realtà tutta la sua famiglia faceva battute pesanti sul mio aspetto, e pensare
che ero ingrassata tanto per adeguarmi alle loro abitudini alimentari.
Sono Lara, ho ventotto anni e da dodici sono malata di anoressia e bulimia. Un giorno, mentre pranzavamo
tutti insieme a casa mia, stanca delle solite battute, sono andata in bagno e mi sono infilata
le dita in gola; da quel momento ho continuato a farlo. Forse mia madre ha intuito qualcosa, ma non
mi ha mai detto nulla perché penso che non sapesse come aiutarmi. Non potendo vomitare sempre
ho iniziato anche a restringere, ad inventare scuse per non mangiare.
Continuavo a perdere peso ma non ero mai soddisfatta, stavo male, soffrivo di forti mal di testa e
mi sentivo sempre più stanca. Uscivo con gli amici ma non provavo più emozioni, andavo avanti
per inerzia.
Ho realizzato che il mio fidanzato era immaturo e l’ho lasciato. Ho incontrato un altro ragazzo che
non badava all’aspetto fisico, cercava una persona con cui costruire il futuro, ma per via della mia
malattia il rapporto è finito.
I miei familiari, vedendomi pelle e ossa, mi hanno spinta a curarmi ma io non ero molto disposta a
farlo. Loro non sapevano più come aiutarmi, ho letto negli occhi di mio padre rassegnazione, rabbia,
sconfitta; mi sentivo in colpa nei suoi confronti perché si alza tutte le mattine alle quattro per
lavorare su un peschereccio e io, che durante le vacanze avevo sempre lavorato per non gravare
troppo sulle sue spalle, sciupavo il suo guadagno in cibo e alcool per stordirmi e ridurre la sensazione
di fame. Soffrivo di insonnia e passavo la notte ad abbuffarmi, associavo all’alcool gli psicofarmaci
che mi avevano prescritto, ma non riuscivo comunque a dormire. Tenevo una lametta sul
comodino ma, pensando ai miei cari, non l’ho mai usata.
Ero scheletrica e priva di forze, ma non avevo paura, però a ventisette anni sentivo di non aver concluso
niente: ero solo in balia della malattia.
Ho accettato di curarmi a Villa Miralago, e sono partita senza salutare i miei genitori, dicendo loro
che mi avrebbero rimpianta. Ero soprattutto carica di astio nei confronti di mia madre, che mi ha
risposto: “tu vai per guarire, non vai a morire”. Adesso mi sento in colpa per averli trattati male: sono
sette mesi che non li vedo e vorrei scusarmi con loro, per averli fatti soffrire, per tutto il denaro sciupato,
per tutte le volte che sono mancata ai pranzi di famiglia.
Questa malattia è perfida, toglie la volontà, è un labirinto da cui non si riesce più ad uscire. Adesso
sono felice perché sono mesi che non bevo alcool e riesco a mangiare senza poi correre in bagno
a vomitare. A chi soffre di questo disturbo direi di imparare ad amarsi, a difendersi da chi cerca di
opprimerli, distruggerli, e di appoggiarsi invece a chi vuole loro veramente bene.
Foto di Marco Rilli